Cinque torri

Quella volta che..
















Finora ho sfoggiato le gite più prestigiose, ma a me e ai miei compagni abituali piace frequentare la montagna in tutte le sue forme. Ecco perché, qualche anno fa, ho frequentato un corso di “alpinismo” organizzato dalla locale sede del CAI. Tralascio le noiose lezioni teoriche e racconterò direttamente dell’uscita pratica conclusiva su roccia in Dolomiti.

Per l’occasione riesco a farmi prestare un pulmino a 9 posti da un grande alpinista thienese del passato, Gianni Busin. Il pulmino accanto alla marca “Leyland” sfoggiava la scritta “Sherpa”. Quale mezzo poteva essere più adatto? Partiamo, quindi, carichi del necessario per arrampicare, mangiare e dormire per due giorni. Destinazione: 5 Torri di Averau sulla strada del Passo Falzarego a pochi chilometri da Cortina. Le cinque torri sono cinque, appunto, scogli  rocciosi di diversa altezza e dimensione, buttati da qualche capriccioso gigante in un catino ghiaioso al cospetto di montagne blasonate come Tofane, Nuvolau, Torri di Falzarego e sono da sempre la palestra di roccia di Cortina.

Arriviamo dal vicino rifugio tintinnanti di moschettoni e discensori, alla base delle rocce. Qui ci dividiamo in cordate che seguiranno diverse vie. A me tocca Toni Pattanaro, da Arsiero, come capocordata. Stravagante personaggio che, mentre ci prepariamo alla scalata, mi confessa essere la terza volta che arrampica da primo di cordata, ma: “Queste vie sono sicuramente più semplici di quelle che abbiamo intorno ad Arsiero”… 

Trovato un clessidrone dove attrezzare la sosta, Toni  parte. La via è un terzo grado, quindi niente di impossibile, però si sviluppa sulla parete nord della torre, che il sole raggiungerà solo qualche ora più tardi. La roccia è molto fredda, infatti. Quando tocca a me, fatti pochi metri, vedo che le mie mani afferrano appigli e fessure, ma non sento niente. Sono completamente gelate. Alla fine del primo tiro le sbatto sulle gambe e, dopo un po’ di “diavoli”, riprendo la sensibilità e la sicurezza. La torre è pendente, quindi, dal lato della salita è alta 150 metri, mentre da dove si scenderà sono solo 50 metri ….nel vuoto.

Le corde doppie che avevo fatto fino ad allora erano state di 7-8 metri e quasi neanche verticali, perciò il fatto di lasciarmi andare per  tutta quella corda, senza potere toccare la parete con i piedi, mi lasciava un po’ senza saliva. Ovviamente non siamo l’unica cordata sulla cima e così un altro istruttore ci suggerisce come effettuare la discesa: “Gavì da ndar xo tegnendo le man sotto al discensore e no far scorare la corda ma fare passaman se no ciapè massa velocità e no ve fermè altro”. Prudentemente, non scendo per primo e cerco di capire come fare. Inutile, dopo due metri non si vede più niente. La parete è troppo strapiombante. Tocca a me. La tecnica prevede di tenere i piedi appoggiati alla parete, all’altezza delle spalle, le gambe distese e accompagnare la discesa facendo dei passi verso il basso. Verifico una decina di volte che l’ancoraggio a cui è fissata la corda sia solido e finalmente mi decido. 

Oh…quando sono completamente nel vuoto e vedo che, un metro sotto, i miei piedi non toccheranno mai la parete. Mi si piegano le ginocchia e ho qualche difficoltà a lasciarmi andare. “Cossa gheto? Te fa male le gambe?” mi dice, con un filo di sarcasmo, Toni. A questo punto “fasso passaman”: la gravità farà il resto. Sulle prime non riesco a godere della discesa, ma, preso un po’ di confidenza, mi rendo conto che effettivamente non è così terribile. Anzi è piacevole. Inoltre, la gente che passa sotto di me si ferma a guardarmi con interesse. Sembro un ragno che scende il suo filo. 

Rotto il ghiaccio e con un po’ di sicurezza in più, arrampichiamo per il resto della giornata su tiri più o meno lunghi mettendo in pratica l’uso della corda e dei nodi, godendo del sole e dello splendido panorama. A sera ci trasferiamo dall’altro lato della valle dove troviamo una malga nella quale passeremo la notte. Depositati  gli zaini, scendiamo a Cortina per una pizza a bordo dello Sherpa. 

Ritornati alla malga, i ragazzi di Arsiero estraggono fornelletti, bustine di the e una bottiglia di Rum a 80°. Seguo con curiosità la preparazione della bevanda che dopo qualche tempo comincia a girare di mano in mano come uno spinello. E' un po’ forte, ma gradevole. La ricetta si chiama “notte d’inverno”. Ovviamente, finito il primo giro, si provvede a riempire il pentolino con dell’altra bevanda. A fine serata e a fine bottiglia di Rum, beviamo una vigorosa “sognando Siberia” e cerchiamo di dormire.

La mattina ci aspettano le Torri di Falzarego, qui faremo la scalata di una parete vera, lunga una decina di tiri di corda e con discesa lungo un canalone innevato. Mario Schiro, altro istruttore e fautore di svariate ricette della sera prima, tuffa la testa sotto al getto d’acqua della fontana davanti alla malga per cercare di diradare i persistenti fumi dell’alcool nei quali dichiara di essere avvolto. Considerando che io ho faticato a lavarmi i denti e l’urlo che ha cacciato Mario, l’acqua che usciva a cubetti ha sicuramente rianimato il nostro compagno. Non invidio, comunque, chi si legherà alla sua corda.















Attacchiamo la via III°- IV°: roccia ricca di appigli, si procede senza intoppi. A metà strada, mi prende un pensiero che per qualche tempo non riesco a togliere dalla testa: “E se adesso, per qualche motivo, si dovesse tornare indietro? Siamo a qualche centinaio di metri dall’attacco, sai che casino scendere in doppia.” Toni  sembra, comunque, padrone della situazione e sale senza ne' problemi ne' tentennamenti, quindi tutto bene. Finalmente in cima, ci riuniamo agli altri, saliti per vie diverse, e ci apprestiamo a scendere. C’è da fare una corda doppia di una ventina di metri per arrivare sul canalone di neve che ci porterà alla base della parete. Anche qui, ho qualche difficoltà a lasciarmi andare lungo la corda, ma una serie di irriverenti battute mi aiutano a compiere correttamente la manovra. Scendere il canale con le scarpette da arrampicata dalla suola liscia, poi, si trasforma in un esercizio di equilibrismo che comporta anche qualche carpiato, tanto spettacolare quanto innocuo.

Scesi tutti, ci dirigiamo al più vicino rifugio per una bicchierata che festeggia il battesimo in roccia degli allievi fra aneddoti e battute. Infine, raccattiamo la nostre cose, le carichiamo sullo Sherpa e con altre due tre soste per bere ("i tosi de Arsiero no i xe mia camei che i stà na setimana sensa bevare") torniamo soddisfatti a casa.

Manrico.

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